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Giocatrice d’azzardo, fuori dalla dipendenza con Towanda: il grido di battaglia delle amazzoni

Al Game Over, l’intensa vicenda di una moderna eroina che salva se stessa per salvare gli altri. Il suo nome di fantasia è Towanda come il grido di battaglia delle amazzoni ma la sua, è la storia vera di una donna che si libera dal gioco d’azzardo patologico

C’è, nei suoi occhi c’è. La si scorge fugacemente ma per diversi attimi e la luce scintillante del suo sguardo apre una finestra sul suo mondo interiore. Ha 46 anni e sta lavorando duramente per lasciarsi alle spalle la sua dipendenza dal gioco d’azzardo.  Una catena che l’ha tenuta imprigionata a lungo ma le origini sono probabilmente nella sua infanzia. E’ di Casalnuovo ed è l’ultima di cinque figli. La sua storia è quella di una moderna eroina che lotta contro l’anaffettività della vita, le distrazioni della famiglia e la ricerca di quell’angolo di quiete che tutti bramiamo. E’ un’appassionata di Wonder Woman, il personaggio dei fumetti statunitensi creato dallo psicologo William Moulton Marston e dal disegnatore Harry G. Peters e per qualche minuto mentre  parla, forse per i suoi capelli neri e per quei tratti da principessa del sud, la si può immaginare come Diana Prince in costume. Non vuole che si riveli il suo nome e ne sceglie uno che le calza a pennello: Towanda. Nome omen  (il nome è un presagio) dicevano i latini. Towanda è il grido di battaglia delle amazzoni, annuncia da un lato la resistenza e dall’altro il cambiamento.

Suo fratello divenne eroinomane quando aveva solo 13 anni. Sua madre la portava con sé alla ricerca del figlio nei vicoli sperduti, dagli spacciatori, nelle case abbandonate e tra i rifiuti. “Mi ha costretta a vedere cose che nessuna bambina dovrebbe mai conoscere ma in fondo era solo una donna disperata che voleva salvare il figlio e voleva tenermi a riparo pensando di farlo investendomi di tutte le sue emozioni, positive e negative”, dice Towanda. Ed è solo l’inizio. Towanda ha dovuto imparare l’istinto naturale a restare viva e ha cominciato a lottare presto.

Aveva nove anni quando un uomo molto vicino alla sua famiglia, approfitta delle disattenzioni dei genitori. “Lo chiamavo zio ma in realtà non era mio zio. Ha abusato di me, ripetutamente mentre il mondo della mia casa cadeva a pezzi davanti ai miei occhi”. La gravità delle sue parole mette al riparo dal rischio insidioso di una narrazione retorica che nasconde l’automatica banalizzazione. Sul suo corpo i traumi non sono visibili ma l’anima? I postumi di quegli abusi, li ha sentiti a lungo e senza poter ricorrere ad una normale medicazione, ha tentato di fuggire da quei ricordi in parte rimossi. Frame di vita estorta che non si cancellano mai da soli. Se ne restano lì, in un angolo della tua testa messi in pausa chissà da quale tasto dul recorder dell’esistenza, ma sono lì.

“Più di una volta ho tentato di andar via dal mio paese e dalla mia casa ma – confessa- mia madre ogni volta si è ammalata come se la mia assenza la privasse dell’ossigeno necessario”. Nel 2014, Towanda decide di andare in Germania, in Baviera, dove aveva dei conoscenti per costruirsi un nuovo futuro. Non è facile ma lei ci tenta con tutte le forze senza immaginare quali altre insidie avrebbe dovuto affrontare. “La mia titolare era giocatrice d’azzardo e mi fa conoscere questo mondo. Non so per quale motivo giocasse ma in quel momento mi pareva una cosa naturale come andare al bar per incontrare gli amici”. In Baviera ci resta per poco e quando torna a casa, cominciando con un nuovo lavoro tutto sembra proseguire normalmente.

Un’illusione che è presto sparita. Dopo quattro anni ricomincia a giocare e stavolta non è per la malinconia di casa ma per quella che si porta dentro. “Andavo a lavoro e poi cercavo ogni scusa per andare all’appuntamento con le Vlt. Si, proprio un appuntamento perché mi vestivo e mi truccavo come se avessi dovuto incontrare il mio amante. Un rifugio dal resto del mondo che davanti alle luci delle macchinette, si scurisce fino a diventare notte buia”. In quella sala, il castello di sabbia tra la dipendenza dal gioco e l’infernale rapporto tra menzogne, debiti e pericolose alienazioni comincia a crollare e viene soffiato via dal vento. La famiglia, grazie ad una zia che abita fuori Napoli comprende il problema dai racconti che con lei condivide la sorella. Towanda viene finalmente notata. Si accorgono che esiste e lei non si nasconde. Confessa di essere una giocatrice patologica, confessa di aver perso circa 300mila euro e confessa di voler vivere. Ad Acerra, al Centro Infinito grazie anche al progetto Game Over sostenuto da Fondazione Con il Sud, Towanda si è rimessa in cammino partecipando a tutti i gruppi di terapia.  Le ferite si sono palesate e con loro anche il tragico strascico psicologico ma è una combattente e ha deciso di non tirarsi indietro. Towanda ce la farà.

Articolo a cura di Tina Cioffo

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