Daniele, ha 28 anni ed il suo passato è fatto di sofferenza, di dipendenze e di abbandoni. Ora viene seguito ad Acerra, grazie al progetto Game Over sostenuto da Fondazione CON IL SUD. “La felicità non viene dal cielo, va costruita”, dice citando il verso di una sua poesia.
Daniele ha 28 anni e la sua storia sembra infinita, costellata di dolori, esperienze forti, scelte sbagliate di chi lo doveva proteggere e percorsi senza via d’uscita che si è scelto ripetutamente da solo. Per raccontarcela, è costretto a fare diverse pause aprendo delle parentesi lunghe anni. A 12 anni, i suoi genitori decisero di trasferirsi dal Napoletano a Modena e fu il primo banco di prova. “Venivo bullizzato solo perché ero il figlio di emigrati al nord, in cerca di lavoro. Mi prendevano in giro ogni giorno, rendendomi la vita impossibile. Tornavo a casa sempre triste, confessai a mia madre i motivi di quella profonda infelicità ma non mi aiutò sentirmi dire che prima o poi avrebbero smesso. Ero, per loro, il bersaglio preferito e lo capii con chiarezza e fu così che diedi inizio, del tutto inconsapevole, alla mia fine. All’ennesimo maltrattamento reagii nell’unico modo che conoscevo e picchiai quei ragazzi, da lì in poi è stata un’escalation”. Daniele si difese con la violenza perché era quella che gli avevano insegnato in famiglia. Il padre, picchiava lui, i suoi fratelli. La violenza con la mamma andò oltre, il padre la accoltellò ma la donna scelse di non denunciarlo immaginando così di poter tener insieme la sua famiglia. Voleva forse fermare un tragico modello replicante. Il marito era cresciuto senza madre, vittima di femminicidio e cristallizzando la situazione aveva sperato di ridurre il cancro che cresceva tra le sue quattro mura. Daniele a 13 anni cominciò a bere, a 17 anni era un alcolizzato, a 19 cominciò con la cocaina e poi il gioco d’azzardo patologico e ogni altra cosa potesse dargli appagamento. Vero o effimero, sano o dannoso che fosse a Daniele non interessava.
Non poteva fermarsi a riflettere, doveva correre lontano da se stesso. Correre verso una meta che non esisteva. Correre per salvarsi ma era quella corsa che lo stava uccidendo. Lo avrebbe salvato una casa accogliente e chiunque si prendesse cura delle sue fragilità che gli hanno scavato dentro a mani nude, lasciando ferite profonde. Tentava di autodistruggersi e ogni volta spostava l’asticella sempre più in avanti. “Ero un albero bello e pieno di foglie, poi sono arrivate le nuvole”, dice Daniele citando il verso di una poesia che ha scritto. “Mia madre ha provato a salvarmi e ogni volta l’ho delusa, vedeva che sarei andato a sbattere ma non riuscivo a mantenere le promesse che le facevo. Deludendola, ho deluso anche me stesso e nel tragitto di libertà sono restato prigioniero, l’ho capito e ho tutte le intenzioni di farcela perché la felicità non viene dal cielo, va costruita. Ora, riesco a vedermi”. Seguito da un’equipe multidisciplinare del Centro per le polidipendenze ad Acerra, grazie al progetto Game Over, Daniele non vuole scappare più. Quando lo salutiamo con un filo di voce, quasi sussurrando ci rassicura: “Ho una casa ora, ho chi mi aspetta e ho chi si prende cura di me”.
articolo a cura di Tina Cioffo