Da Acerra, un nuovo inizio. Dal Centro per il recupero delle dipendenze, grazie anche al progetto Game Over, la storia di Giuseppe, 37enne del Napoletano. Da ragazzo problematico e con anni di carcere sulle spalle, ora è un uomo che vuole solo poter essere libero di viaggiare con la sua famiglia.
Si dice che un uomo abbia la sua storia scritta sulle mani e per Giuseppe, un po’ è vero. I suoi dorsi sono ricoperti di tatuaggi, ghirigori e nomi. Simboli ed inziali che tengono insieme ricordi belli e ricordi brutti.
Giuseppe ha 37 anni, è del Napoletano e sta scontando l’ultimo anno di pena detentiva ai domiciliari, dopo averne trascorsi già 10 tra dentro e fuori dal carcere di Poggioreale e dalla comunità per tossicodipendenti, con due mesi di isolamento. L’ultima condanna è arrivata dopo la denuncia di aggressione presentata dalla madre. “Ha fatto bene a denunciarmi, ora lo capisco ma allora no. Non capivo niente. La misi con le spalle al muro, volevo soldi sempre più soldi. Doveva fare qualcosa per fermarmi e l’unico modo era quello”, ammette Giuseppe.
La vita e le cattive scelte, lo hanno straziato fin da piccolo. A 12 anni il suo primo reato e a 14, il secondo. Il tormento non ha coinvolto solo lui ma anche la donna che ha deciso di stargli accanto nonostante tutto. “Si chiama Tiziana, avevo 18 anni quando l’ho conosciuta e già mi drogavo da circa due anni. Per un po’ di tempo chiusi con la sostanza ma poi il vortice mi risucchiò di nuovo e dai 20 anni è stata una escalation veloce”. Di esempi di rettitudine non ne ha avuti molti. Fu un suo caro amico a fargli provare la cocaina e le loro, non erano delle semplici scorribande di ragazzi. “Credo che mio padre avesse capito quello che facevo ma non mi ha mai parlato né spinto a cambiare strada. A volte mi invitava ad accompagnarlo a sbrigare delle faccende ma non ricordo un solo discorso sui pericoli che correvo. Non so perché non lo abbia fatto, forse si era rassegnato o forse pensava che un giorno avrei compreso da solo”. A 20 anni, Giuseppe si drogava e spacciava cocaina. “La merce”, è così che la chiama Giuseppe. Il suo, non è un racconto banale e non nasconde neppure il fascino che provava verso la “malavita” fatta di gioco d’azzardo, estorsioni, furti e vessazioni. La ‘malavita’ è per molti solo un tema da romanzare ma per chi ne resta imbrigliato consapevolmente o meno, è solo una maledizione.
E’ diventato violento pure con la donna di cui si era innamorato, maltrattandola e aggredendola come nessun uomo dovrebbe mai fare con una donna. “Il mio più profondo pentimento è di averla fatta soffrire, l’ho psicologicamente distrutta. Ho perso molti momenti della vita delle mie figlie ed è stato solo grazie alla donna che ho accanto se ora non mi ritrovo completamente solo”. Giuseppe è padre di due figlie, Asia di 14 anni al primo anno dell’Istituto Alberghiero e Adriana di 7 anni. “Sono fiero di loro e prima o poi la mia storia la racconterò ad entrambe. Lo farò perché devono avere una spiegazione rispetto alle mie lunghe assenze, ai carabinieri che a volte sono piombati a casa nostra. Dirò tutto, perché devono capire da quali cose e persone si devono guardare”, dice Giuseppe per poi subito aggiungere: “la cosa buona è che ne sto uscendo. Stavolta ne sto uscendo davvero. Ho un sogno per cui lottare e sono loro tre. Voglio portarle ovunque, essere libero di viaggiare”.
Giuseppe ha un mondo da scoprire, tutto quello che fino a questo momento ha negato a se stesso. C’è chi crede in lui e ha nuove storie a cui ispirarsi ora. A partire da quell’amico che per primo gli fece provare la droga e che scontata la sua pena con la giustizia, si è rimesso in cammino trovandosi un lavoro legale. “Per lui l’incubo è finito e ora deve finire anche il mio”, dice mentre ci stringe la mano ed entra nella stanza degli incontri di gruppo, al Centro per il trattamento delle pluridipendenze ad Acerra rafforzato grazie al progetto Game Over. In cerchio, gli uni di fianco agli altri ci sono persone con storie diverse, con famiglie differenti e con vissuti a volte lontani ma pur sempre insieme per aiutarsi con un sorriso o uno sguardo di comprensione, perché la seconda possibilità non va sprecata, per nessuno.
articolo a cura di Tina Cioffo